[ ANTOLOGIA ]

6 - Il lunfardo

    Nel 1906 Miguel Cané scriveva:
"Il giorno che l'educazione primaria sarà realmente obbligatoria tra noi, il giorno che avremo scuole sufficienti per educare le migliaia di bambini che vagano dall'alba al tramonto nelle mille botteghe di strada della nostra capitale, il "lunfardo", il "cocoliche" e altri "idiomi nazionali" periranno per mancanza di coltivazione."

    Senza dubbio, oggi sarebbe difficile dire lo stesso. Perché come nota Gobello:
"La profezia non sembra essersi avverata"

    In realtà, il lunfardo non solo confermò la sua complicata e sconosciuta vitalità ma si inserì persino nella quotidiana parlata popolare. Lo stesso Gobello nota:
"Quel vocabolario cosmopolita, meno figlio del carcere che dell'immigrazione, resistette saldamente al sostenuto impatto con dei grammatici e dei signorini intellettuali."

    E allora: cos'è il lunfardo? Cosa s'intende con questo termine? Per Eusebio Gómez:
"Lunfardo è il nome con cui, nel gergo malavitoso, s'indica il professionista del furto."

    D'accordo con questa osservazione, Tallon scrisse:
" I ladri, che mai chiamerebbero sé stessi ladri, di solito si definiscono scaperstrati o lunfardi. Noi ragazzi scapestrati… Noi lunfardi…"

    Però, per estensione, in seguito si chiamò lunfardo non solo il ladro ma anche colui che coniò questo gergo "…nell'ozio delle carceri" Questo gergo è stato definito da Borges con queste parole:
" Tecnologia della rapina e del grimaldello"
Sebbene una cosa sia quel " …idioma del reato, ingenuamente esoterico," e un'altra (come dice Gobello) "… il linguaggio bonairense, le quasi mille parole di un vocabolario cosmopolita a cui si potrebbe rinunciare solo per un insopportabile complesso di pedanteria estetica."

    Perché in definitiva e secondo ciò che sottolinea Enrique R. del Valle:
"Il lunfardo è la lingua orillera della Grande Buenos Aires, usata non solamente dai ladri, come fu in origine, ma anche dalla gente della malavita, dal cui vocabolario hanno trasmesso alla lingua comune della gente un bel po' di di parole il cui senso particolare si è adeguato nelle bocche di questa ad altri usi."

   
Dice Carella:
"Si parla di periferia e di malavita, come se fossero due cose igienicamente isolate. Sembra non essere stato osservato che non possono distinguersi con tanta precisione come vorrebbe qualcuno. La periferia e la malavita non sono solo vicini ma coesistono, convivono famigliarmente. Subiscono una inevitabile e reciproca influenza."


    Tante spiegazioni e commenti sono conseguenza degli attacchi e ammonimenti che subì il lunfardo nella misura in cui si integrava con la parlata popolare. Cantarell Dart sosteneva:
"Il problema della lingua costituisce un problema nazionale"

   
E per questo, non deve meravigliarci che il lunfardo abbia motivato polemiche e opinioni discordanti. Per Borges, per esempio,
"…il fascino italico del lunfardo [non è altro che] farragine artificiale e indigente, meno tipico della periferia che non del carcere"
   

   
Al contrario Martínez Estrada propone un'altra visione:
" Nella formazione delleparole spurie c'è qualcosa dell'ignoranza e della pigrizia, però c'è molto di più che riguarda l'intenzione ribelle. Queste parole carnefici di altre, che automaticamente vengono seppellite, si propagano con facilità anche nei circuiti superiori perché portano una specie di vendetta anonima."
E sostiene inoltre che in questa creazione o formazione di un vocabolario si intravvede
"…una lotta per liberarsi del peso morto che l'idioma mette nelle idee"…"le parole portate dal conquistatore non corrispondevano alla realtà americana."

   
Da parte sua Gálvez scrive:
" Era uno di quelli che parlano un misto di spagnolo degenerato e italiano dei conventillo, con alcune parole francesi, un gergo assurdo che chiamano lunfardo…"

    Il lunfardo è il risultato dell'immigrazione. Gobello afferma:
" Il linguaggio porteño deve la metà almeno dei suoi vocaboli al generoso prestito di varie lingue e dialetti. Molti di questi sono sicuramente di derivazione italica, ma anche francese, indigena, portoghese brasiliana, negra. "

    In accordo con questo, il lunfardo avrebbe aiutato a trovare una soluzione al problema che Borges scopriva nell'idioma degli argentini: "Due tendenze opposte, quella pseudo-popolana e quella pseudo-spagnola, dirigono la scrittura di ora. Chi non è avvezzo a scrivere e fa il bracciante, o il gaucho o lo scapestrato, cerca di "spagnolizzarsi" o apprendere uno spagnolo gassoso, estraniato, internazionale, senza possibilità di alcuna patria. [ Jorge Luis Borges, L'idioma degli argentini (1928), ripudiato dall'autore tanto da tornare in circolazione soltanto dopo la sua morte, avvenuta nel 1986. (Piccola Biblioteca Adelphi 2016) ]

    Ma Capdevila [*] reagì contro la difesa del lunfardo dicendo:
" …predicano che solo parlando male noi possiamo capirci bene…"
   
    Un altro fenomeno che ottenne attenzione fu ciò che Alfonso Reyes sottolinea con queste parole:
"Il compadrito argentino usa il "vesre" - inversione completa delle sillabe del vocabolo: "gotan" per tango, "cañemu" per muñeca - per mostrare la sua 'guappaggine' "

    E Martínez Estrada scrive:
" Parlare al contrario, il "vesre", è una forma patologica dell'odio e dell'incapacità. Non potendo parlare un altro idioma, disdegnandolo quando lo si parla e mancando di risorse per sfuggire alla resistenza vitale della lingua che forzosamente deve essere usata nella relazione sociale e intima di qualsiasi genere, si opta per invertire le sillabe delle parole cosicché la lingua pur essendo la stessa, risulta essere totalmente il contrario, l'inverso."
   

Gobello invece dice: "Il vesre è uno scherzo, non un gergo". E anche: "Parlare al contrario sembra essere un gioco spagnolo"
   

   
Parallelamente a queste opinioni c'è da evidenziare un altro fenomeno: i testi di tango. E Borges osserva:
"Nel tango ci sono leziosità internazionali e un vocabolario reietto"
Allo stesso tempo: "I primi tanghi, gli antichi tanghi maledetti, mai sopportarono testi lunfardi: affettazione che la novella stupidaggine attuale rende obbligatoria e che li riempie di segretezza e di falsa enfasi"
   

   
Però Carella sostiene: Il testo dei tanghi, così com'è (senza giudicarlo) non esisterebbero se non ci fosse domanda. La gente -ignorante o no - li reclama e proprio in quel linguaggio volgare, tossico, di cattivo gusto, fuorilegge. Per far sì che accetti e solleciti tale poesia e respinga i libri di pedagogia, deve esistere qualche potente ragione."

   
Però Carella sostiene: "I testi del tango, (senza giudicarli) non esisterebbero così come sono, se non ce ne fosse domanda. La gente - ignorante o no - li reclama e proprio in quel linguaggio volgare, tossico, di cattivo gusto, fuorilegge. Per far sì che accetti e solleciti tale poesia e respinga i libri di pedagogia, deve esistere qualche potente ragione."
È evidente che la letteratura del tango ha contribuito alla diffusione del vocabolario lunfardo. E sempre Carella afferma:
" Il popolo inventa vocaboli che sono raccolti dagli autori di testi e di teatro per le loro opere. Scrittori e teatranti stimolati, inventano a loro volta nuove locuzioni. Il popolo riconosce la sua propria voce e assimila le altre come giocose novità"
   

   
Per questo, come ha precisato Gobello:
"…tale linguaggio che sembra forgiato per la caricatura e che senza dubbio può esprimere questa angustia:


Campaneando un cacho'e sol en la vedera    
/     Fissando un brandello di sole sul marciapiede

[El ciruja 1926, musica Ernesto de la Cruz, parole Francisco Alfredo Marino]

"… che ha mantenuto il nome di lunfardo… che non è solo il linguaggio vanamente esoterico dei delinquenti ma anche quello parlato dal porteño quando comincia a entrare in confidenza… un idioma carico di metafore nel quale le voci del carcere convivono con altre di onorata stirpe…"
   
   E non solamente il tango o la sua letteratura contribuiscono alla diffusione di tale linguaggio. In un lavoro fatto da Gobello con Soler Cañas si legge:
" Senza dubbio (nel 1897) il lunfardo già comincia a guadagnare la strada e a infiltrarsi nella letteratura popolare. Prima il giornalismo, dove militano uomini che lasceranno traccia nella letteratura argentina e poi il teatro, specchio sia dei costumi sia delle realtà, gli danno spazio e lo mettono in circolazione…"

   
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[*] Arturo Capdevila (Córdoba, 14 marzo 1889 - Buenos Aires, 20 dicembre 1967) è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo ed insegnante argentino.